Un testo scritto originariamente per la rivista “Volare” da Corrado Schreiber, uno dei più celebri e stimati comandanti che abbiano mai pilotato aerei Alitalia.
Per tutti i piloti, specialmente per quelli di linea, il miglior diario è il proprio libretto di volo. Basta sfogliarne le pagine per rivivere tutte le esperienze in esse racchiuse, sia professionali, sia umane. Anche se nel libretto di un pilota di linea le annotazioni appaiono in forma alquanto sintetizzata (magari, per risparmiare spazio, su uno stesso rigo vengono trascritte più tratte volate nel medesimo giorno), sovente i ricordi vi affiorano con una freschezza inossidabile al tempo. Per esempio, il volo con il DC-7C del 3 maggio 1961, riportato alla pagina 81 di uno dei miei cinque libretti di volo, rappresentò per me la definitiva conclusione dell’attività di linea con i velivoli a elica e l’inizio di quella con gli aviogetti: una riga compilata con la penna stilografica che segnava, oltre all’inizio di una nuova epoca nel trasporto aereo, anche il cambiamento di molte note abituali.
Volando con i jet non avrei più rivisto, per citarne solo qualcuna, i fuochi di Sant’Elmo, cioè quelle scariche luminose di elettricità negativa simili a fiammelle che i naviganti del mare scorgevano di notte sulle cime degli alberi delle navi e che quelli del cielo (sempre di notte) vedevano descritte dalle estremità delle pale delle eliche sino a formare aloni di luce bianca, quasi arcana. Non avrei scorto quasi più neppure le aurore boreali che accompagnavano il volo notturno degli aeroplani a elica sul continente americano quando, a partire dalla latitudine dello stato del Maine, ci si spingeva verso Nord. Della sparizione di questo affascinante fenomeno naturale non saprei fornire una spiegazione scientifica, dal momento che inizia a manifestarsi da un’altezza di 80 chilometri. Volando dentro le nubi di notte non avremmo quasi più rivisto apparire sui parabrezza nemmeno quelle scariche luminose di elettricità statica simili a ramificazioni di foglie; innocue fiammate bianco-azzurrognole che, invece, sui vetri del DC-6B e del Convair 340 si formavano frequentemente.
I quadrigetti Douglas DC-8 dell’Alitalia, oltre a essere impiegati sulle rotte del Nord Atlantico, avevano iniziato a operare collegamenti anche con il Sud America. Lo scalo dell’Isola del Sale era stato abbandonato in quanto la compagnia usava come scalo intermedio l’aeroporto di Dakar.
Circa un mese dopo l’inizio delle operazioni sulle linee del Sud America il DC-8 iniziò a volare anche in Africa dove, nel frattempo, il nuovo aeroporto di Nairobi-Embakasi, che aveva sostituito quello con la pista in terra battuta di Eastleigh, era stato dotato di nuove radioassistenze, compreso un efficiente sistema di atterraggio strumentale ILS. Fu proprio su questo aeroporto che, in un avvicinamento dopo il passaggio di una linea di “groppi” temporaleschi, credo di aver sperimentato per la prima volta il windshear. Fortunatamente in quell’occasione il solo inconveniente fu rappresentato da un atterraggio rimediato all’ultimo momento, non proprio “dolce” per i passeggeri. Il fenomeno del windshear, allora, non era molto conosciuto in quanto ne erano più interessati gli aerei di notevole massa – come appunto il DC-8 – che iniziavano a essere diffusi proprio a partire dagli anni ‘60.
Con il quadrigetto iniziammo a volare anche a Chicago. Poiché la tratta terminava su uno degli aeroporti più trafficati del mondo, la linea venne preparata con molta cura al simulatore. Proprio a Chicago, dove sostavo con il mio equipaggio in attesa del primo volo di rientro con il DC-8 giunto da a Roma, mi accadde un fatto singolare. Trattandosi dello scalo più congestionato degli Stati Uniti – e nuovo per me – mi recai in aeroporto molto tempo prima dell’ora della partenza per studiarmi bene il complesso percorso di rullaggio che si snodava in una miriade di raccordi.
Dalla radio di bordo appresi che la direzione degli atterraggi era per Sud-Est. Vedevo nell’oscurità i potenti fari degli aerei allineati sul sentiero di discesa ma secondo la bussola del mio DC-8 la direzione del finale era quella opposta, cioè per Nord-Ovest. Pensai a un errore della bussola magnetica, sui valori della quale venivano riallineati e sincronizzati i ripetitori giroscopici Gyrosin. Per sincerarmi di questo fatto salii su un B-707 dell’Air France parcheggiato vicino al nostro aereo e vi trovai la medesima situazione bussola e lo stesso contrasto con le direzioni di avvicinamento. Era accaduto (ma impiegai molto a capirlo) che entrambi gli aeroplani fossero stati colpiti da un fulmine durante il loro arrivo a Chicago e che la scarica elettrica avesse determinato l’inversione della polarità delle rispettive le bussole. Per rimettere gli apparati in efficienza occorsero sei ore. In volo tutto andò bene sino a metà Atlantico ma circa quattro ore prima di giungere a Roma la bussola magnetica si era di nuovo sfasata di 180 gradi. Fortunatamente ciò non comportò alcun problema perché i Gyrosin, oltre che con il direzionale, erano collegati anche con bussole magnetiche installate alle estremità delle semiali e quindi lontano dai “capricci” dalla bussola centrale.
Dopo la nomina a istruttore sul DC-8 ricevetti quella di pilota di controllo e, successivamente, anche quella di vicecapo pilota del Settore. In tale incarico mi fu affidata la responsabilità dell’operazione “abbassamento dei minimi”, con la quale la compagnia intendeva abilitare i piloti all’atterraggio strumentale secondo i parametri “200-800”, cioè con un “tetto” di copertura delle nubi di duecento piedi contro ottocento metri di visibilità orizzontale. L’addestramento veniva preceduto da alcune lezioni teoriche e da esercitazioni al simulatore, accompagnate da approfonditi briefing.
Si passava quindi a una serie di voli reali, in genere notturni, durante i quali il pilota da abilitare operava con davanti uno schermo che limitava il campo visivo ai soli strumenti. Quando si giungeva ai “minimi di addestramento” (che erano di 50 piedi inferiori rispetto a quelli di certificazione) l’istruttore restituiva al pilota la piena visibilità togliendo lo schermo, che consisteva in una lastra di materiale opaco-trasparente applicata al vetro del parabrezza sul lato del pilota in addestramento. La semplicità dell’accorgimento oggi può fare sorridere, così come appaiono buffi certi spezzoni di film che ritraggono le prime macchine volanti. Senza di esse, però, e senza gli uomini che le pilotavano, il Jumbo e il Concorde non sarebbero mai esistiti.
Il DC-8 solcava ormai i cieli di tutto il mondo: Nord, Centro e Sud America, Africa, Estremo Oriente, Australia, e per assicurare le prosecuzioni delle linee negli opposti emisferi, alcuni equipaggi erano stati dislocati a Bangkok e a Rio de Janeiro.
Ricordo, a Hong Kong, l’ansia per la ricerca dell’aeroporto e l’emozione dell’atterraggio notturno sulla pista distesa sull’acqua e a ridosso delle case. Lo scalo era allora privo degli attuali ausilii per l’assistenza ai velivoli, come i segnali del punto di contatto con la pista. Con il quadrigetto mi recai anche in Sud America volando sulla linea Rio de Janeiro – San Paolo – Montevideo – Buenos Aires – Santiago, in sostituzione del comandante Fenili (un personaggio unico nella storia dell’aviazione civile, che ancora oggi, a 83 anni, non ha rinunciato al piacere di volare con gli ultraleggeri). Era il periodo invernale, che in quei luoghi è caratterizzato spesso da nubi basse e da scarsa visibilità. Dalla Cordigliera delle Ande, quasi sempre incappucciata, sbucava l’imponente cima dell’Aconcagua e la vista della montagna consentiva un avvicinamento più rapido verso El Tabon, da dove si poteva scendere verso Santiago seguendo una radiale VOR e quindi agganciare l’NDB dell’aeroporto di Los Carillos (il moderno scalo di Pedahuel non era ancora operante).
Un giorno, subito dopo il decollo da Buenos Aires, in cabina si accese il segnale di emergenza dovuto alla perdita di pressione idraulica, che sul DC-8 rappresentava una delle situazioni critiche più temute. La decisione migliore, in questo caso, era quella di riatterrare immediatamente, per tutta una serie di motivi: il tempo era buono, la pista abbastanza lunga per consentire la corsa di arresto dell’aereo e soprattutto perché ciò significava ridurre il tempo della fuoriuscita dell’olio. In un attimo i comandi di volo si disposero in manuale, ma in quelle condizioni, dopo aver toccato la pista, sarebbe stato impossibile usare i freni idraulici. Memore delle esperienze occorse ad altri piloti, non toccai nemmeno i freni ad aria, che viceversa avrebbero potuto bloccare le ruote, e fermai l’aeroplano con il solo uso degli inversori di spinta dei motori. Per non slittare mantenni il “reverse” alla potenza minima indispensabile, fino all’arrivo di un trattore mandato dalla torre di controllo. L’olio era completamente fuoriuscito da una tubazione dell’impianto frenante. Una volta riparato il guasto, la scorta di liquido idraulico delle officine dell’aeroporto non fu sufficiente per rimpiazzare la quantità andata perduta e si dovette reperire quasi tutto l’olio di questo tipo esistente in città, tanti erano i litri contenuti nei circuiti idraulici del DC 8, soprattutto in quelli dei comandi di volo. Più di vent’anni dopo mi capitò di incontrare, in un ristorante romano, un signore che raccontava di essere stato a bordo di un aereo dell’Alitalia che nel luglio del ‘63 “aveva rotto i freni” a Buenos Aires e che ricordava ogni dettaglio di quell’episodio.
Con il quadrigetto della Douglas andammo anche a Mosca. Agli inizi incontrammo grandi difficoltà di comprensione con il controllo di avvicinamento: coloro che parlavano in frequenza VHF erano traduttori e non esperti operatori, tenevano il microfono troppo vicino alla bocca ed era difficilissimo capirli.
Nel peregrinare per il mondo con il DC-8 capitò ogni genere di esperienza, compresa quella che certi enti di assistenza al volo a cui venivano richiesti i bollettini meteo dell’aeroporto di destinazione manifestassero un inguaribile ottimismo anche in presenza delle peggiori condizioni di tempo. Una volta, alla richiesta di informazioni relative allo scalo di arrivo, l’operatore rispose di non preoccuparsi perché il tempo era buono. Il pilota, allora, si informò meglio e chiese quali fossero i valori del punto di rugiada e la temperatura al suolo. «Cinque e cinque», fu la risposta. «Ma allora c’è nebbia!». «Non si preoccupi, certamente è un errore dell’osservatore, il tempo è buono». All’arrivo, in avvicinamento finale, giunse via radio il vero dato relativo alla visibilità: zero! Capitarono anche dialoghi tra pilota e operatore come il seguente: «Qual è l’ultimo bollettino meteo?» «Piove!» «Sì, ma quali sono la visibilità e il “ceiling” delle nubi?» Nuova risposta: «Piove!». Pare impossibile che un simile grado di approssimazione potesse esistere solo 25 anni fa, anche se, per fortuna, ciò avveniva solo in casi particolari.
II DC 8/43, pur essendo un velivolo maneggevole e versatile nell’impiego, non aveva una grande autonomia di volo. Una tratta come la diretta Roma-New York, che in media veniva coperta in 9 ore e 15 minuti, in caso di ondate di maltempo poteva diventare critica per la necessità di ricorrere ad aeroporti alternati, talvolta anch’essi in condizioni marginali, come spesso accade sulla costa atlantica degli Stati Uniti. Quando perciò l’Alitalia acquistò i DC-8 nella nuova versione 62, molti piloti espressero la loro soddisfazione. Il primo esemplare del nuovo velivolo arrivò a Fiumicino il 16 settembre 1967. Il nuovo DC-8/62 era potenziato da quattro turbofan Pratt & Whitney JTD 3 da 8.550 chilogrammi di spinta ciascuno (900 chilogrammi in più dei turbogetti Rolls-Royce Conway del DC-8/43), aveva un peso massimo al decollo di 158.760 chilogrammi (contro i 142.885 del predecessore) ed era più lungo di circa 11 metri. Con il nuovo aereo fu possibile operare senza problemi sulle tratte intercontinentali più lunghe quali, appunto, la Roma-New York e la Lisbona-Caracas, ed eliminare lo scalo di Dakar nella rotta per Rio de Janeiro. Fu proprio con il DC-8/62 che nel febbraio del 1968 stabilii il tempo record della traversata – eccezionale per l’epoca – di 9 ore e 31 minuti, sfruttando una situazione di “minimum flight path” che portava la rotta leggermente a Nord di quella standard.
Il periodo trascorso volando Sul DC-8/43 e sul DC-8/62, sui quali gli equipaggi abilitati volavano indifferentemente prima dell’istituzione dei settori d’impiego, consentì di partecipare ad avvenimenti irripetibili. Il settore DC-8 collezionò fra le altre anche l’esperienza dei primi voli papali. Il fatto che allora il Pontefice usasse l’aereo per i suoi viaggi apostolici era veramente un’innovazione nella bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricordo di avere trasportato svariati Capi di Stato italiani e stranieri; voli che tecnicamente non rappresentarono niente di eccezionale, ma che talvolta furono legati ad avvenimenti di portata storica, come quella volta che, di tutta urgenza, accompagnammo il Presidente del Senato italiano a Washington per i funerali del Presidente Kennedy.
Fu con grande nostalgia che lasciai il DC-8 per iniziare il corso sul Boeing 747, ai primi di gennaio del 1970. Il DC-8 era stato un grande aeroplano e, nonostante i suoi trent’anni di età, lo è ancora. Svariati esemplari del quadrigetto, infatti, continuano a volare nella versione merci; di essi molti sono stati convertiti in “cargo” dalle Officine Aeronavali di Venezia.
Dopo il corso sul B-747 tornai a volare sul DC-8 per un brevissimo periodo, per esigenze di organico della compagnia. Furono tre voli in tutto, ma per me contarono moltissimo perché potevo così stemperare il mio addio al vecchio quadrigetto, ricordando alcune sensazioni indelebili come il caldo avvolgente del sole sull’aeroporto di Rio-Galeao, quando si scendeva la scaletta dell’aeroplano per recarsi nella vecchia aerostazione priva di aria condizionata, all’interno della quale un pappagallo accoglieva gli equipaggi dicendo “obrigado”, la neve di Montreal che scende obliqua nel vento, l’afrore umido dell’aria di Mogadiscio, il caldo dell’asfalto di Bangkok che trapassava la suola delle scarpe. Una tavolozza di impressioni che è privilegio di ogni pilota di linea poter rivivere tra le pagine dei libretti di volo.
Corrado Schreiber
Pubblicato originariamente sul mensile aeronautico Volare
Douglas DC-8/43
Equipaggio di condotta: 4
Passeggeri: 28 in prima classe + 96 in classe turistica
Motori: 4 x Rolls Royce Conway R-Co. 12 Mark 509 da 7.945 kg di spinta
Velocità di crociera massima: 943 km/h a 31.000 piedi (9.450 m)
Autonomia: 7.800 km
Peso massimo al decollo: 142.900 kg
Apertura alare: 42,60 m
Lunghezza: 45,93 m
Consegna primo DC-8/43 ad Alitalia: 28 aprile 1960
Dismissione ultimo DC-8/43 da Alitalia: 10 ottobre 1977
Douglas DC-8/62
Equipaggio di condotta: 3
Passeggeri: 14 in prima classe + 150 in classe turistica
Motori: 4 x Pratt & Whitney JT3D-3B da 8.618 kg di spinta
Velocità di crociera massima: 945 km/h a 39.000 piedi (11.885 m)
Autonomia: 9.600 km
Peso massimo al decollo: 158.800 kg
Apertura alare: 45,2 m
Lunghezza: 48 m
Consegna primo DC-8/62 ad Alitalia: 28 novembre 1967
Dismissione ultimo DC-8/62 da Alitalia: 3 aprile 1981
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