er una compagnia aerea, la scelta di uno specifico velivolo per la propria flotta è un momento chiave da cui può dipendere il suo futuro: una scelta sbagliata può infatti compromettere le sue sorti. È necessario considerare le esigenze contingenti, le richieste dei naviganti, il budget a disposizione da parte dell’amministrazione, le aspettative dei passeggeri e ovviamente anche le pressioni di lobby industriali e politiche. Il tutto produce un cocktail esplosivo, che nel caso delle compagnie più importanti può portare a scelte che talvolta lasciano l’amaro in bocca a molti.
La compagnia civile di riferimento per il nostro Paese è storicamente Alitalia, che negli oltre sette decenni della sua storia ha utilizzato 38 modelli diversi di aeromobili. Tuttavia, svariate sono state le occasioni in cui gli aerei prescelti avrebbero potuto essere altri, per cui la flotta con il tricolore sulla coda avrebbe assunto fogge e dimensioni totalmente differenti da quelle a cui siamo abituati. Questo articolo si propone di illustrare in sequenza temporale tutti i velivoli “ipotetici” della storia di Alitalia, ovvero quelli che avrebbero potuto entrare in servizio attivo, ma che per svariate ragioni non hanno intrapreso il volo per Fiumicino.
Un inizio tribolato
A differenza della LAI – Linee Aeree Italiane, che al momento della fondazione nell’immediato dopoguerra disponeva dell’appoggio della ricca e potente TWA – Trans World Airlines, oltre all’influenza dell’alleato USA, Alitalia poteva contare sulle forze molto più ridotte della BEA – British European Airways, consorella britannica della BOAC e proprietaria per il 40% delle quote della compagnia dalla Freccia Alata. Così, mentre da un lato il piano di sviluppo della LAI prevedeva velivoli pressurizzati – i Douglas DC-6 – sull’importante rotta atlantica per New York, Alitalia doveva ancora barcamenarsi con aerei che avevano molto in comune con i livelli tecnologici anteguerra. I britannici imposero inoltre motori Bristol al posto di quelli Alfa Romeo e in più pretesero che Alitalia utilizzasse i robusti ma scomodissimi e rumorosi Avro Lancastrian nelle rotte africane e per il Sudamerica. Non fidandosi delle capacità di coloro che solo qualche anno prima avrebbero potuto incontrare nei cieli come nemici, la dirigenza BEA fece sì che dopo il primo periodo di addestramento compiuto in Inghilterra, agli equipaggi italiani venisse fornito un aereo di addestramento Avro Anson, bimotore considerato propedeutico per un successivo passaggio sugli Avro Lancastrian, quadrimotori derivati dallo storico bombardiere Lancaster. In effetti, nell’estate del 1948 il piccolo velivolo per addestramento fu regolarmente trasferito all’aeroporto di Ciampino, ricevendo le marche italiane I-AHBN. Tuttavia, gli equipaggi italiani di condotta – tutti con grande esperienza accumulata sin da prima della Seconda guerra mondiale – dimostrarono agli stessi britannici di essere perfettamente in grado di pilotare i Lancastrian senza bisogno di “farsi le ossa” su aerei più piccoli. Per cui il piccolo Anson non venne praticamente mai usato per l’addestramento dei piloti Alitalia, rimase abbandonato in un angolo dell’aeroporto romano e dopo un fugace interesse da parte dell’Aeronautica Militare, molto probabilmente fu smantellato, dato che non esistono tracce di ulteriori suoi impieghi. A titolo di curiosità, va segnalato che dall’estate del 1947, nella flotta Alitalia risultava presente anche un Avro Lancastrian: un vero e proprio bombardiere britannico del tipo 683 modello B1 a cui ovviamente era stato eliminato l’armamento. Questo aereo mantenne le marche britanniche G-AJWM e la scritta “Alitalia Roma” sul lato sinistro della fusoliera, ma non entrò mai davvero in servizio, finendo per essere utilizzato come fonte di pezzi di ricambio per i Lancastrian della flotta.
Essendo legata a filo doppio con la Gran Bretagna e costretta ad utilizzare i sorpassati aerei della produzione nazionale (SIAI-Marchetti SM.95 e FIAT G.12), Alitalia in quel periodo – come riportato da una rivista dell’epoca – era «particolarmente interessata per il Fiat G.218, il Breda Zappata 308 e l’SM.95S». Per la cronaca, nessuno di questi tre aerei ebbe il successo sperato, né entrò a far parte della flotta Alitalia. Il FIAT G.218 avrebbe dovuto rappresentare la naturale evoluzione del modello G.212 ma non lasciò mai i tavoli dei progettisti. Il Breda-Zappata 308 era un elegante quadrimotore pentapala e deriva sdoppiata, realizzato in un unico esemplare che compì il primo volo il 27 agosto 1948; inizialmente Alitalia ne ordinò quattro esemplari, ma successivamente l’impossibilità di dare inizio alla produzione in serie costrinse la Breda a cedere l’unico velivolo realizzato all’Aeronautica Militare, che lo utilizzò fino a quando nel 1954 l’aereo si danneggiò irreparabilmente in Africa, dove fu abbandonato. Il SIAI-Marchetti SM.95S era invece una variante del velivolo già facente parte della flotta Alitalia, ma progettato con una struttura completamente metallica; anche questo velivolo rimase però solo sulla carta. Stessa sorte anche per il fantasioso Santangelo Orsa: un aereo da 26 posti con struttura metallica ed ala bassa, dotato di due motori Isotta Fraschini da 800 cavalli l’uno e contraddistinto da un’ampia zona vetrata nella parte anteriore. Come numerosi altri progetti italiani dell’epoca, l’Orsa non ebbe fortuna e non superò mai la fase progettuale, destinata ad un concorso indetto per un trasporto dedicato all’Aeronautica Militare.
Lockheed Starliner e Boeing 707
Come si è detto, nelle prime fasi della sua storia le scelte degli aeromobili di Alitalia furono pesantemente influenzate dal socio straniero BEA, che fino al giugno 1961 ebbe un’importante voce in capitolo nel consiglio di amministrazione della compagnia italiana. Tuttavia, dopo l’impiego dei primi velivoli statunitensi, a partire dai Douglas DC-4 giunti nel 1950, Alitalia cominciò a guardare con estremo interesse a ciò che accadeva al di là dell’Atlantico, tralasciando gli sviluppi aeronautici britannici. E così negli anni ’50 la flotta si arricchì di aerei Douglas DC-6B, DC-7C e Convair 340 e 440.
Il diretto competitor di Alitalia restava la LAI – Linee Aeree Italiane, che aveva aerei più moderni, ottime rotte, grandi disponibilità economiche e una chiara visione degli sviluppi futuri dell’aviazione civile. Già nel 1949 la LAI aveva pubblicato internamente un documento tecnico intitolato “Analisi d’impiego dei velivoli Douglas DC6 mod.1160 e Lockheed Constellation 749A sulla rotta del Nord Atlantico”. I DC-6 della LAI entrarono regolarmente in servizio su quella rotta nel marzo del 1950 e per ampliare l’autonomia e la capacità, la compagnia puntò sulla nuova versione del Constellation: la variante L-1649A Starliner (nel frattempo Alitalia si affidava ai Douglas DC-7C, di prestazioni simili). Gli Starliner della LAI avrebbero dovuto essere almeno 4, per i quali erano già state prenotate le marche I-LAMA, I-LETR, I-LIRA e I-LODO e scelti i nomi di battesimo Romano, Ambrosiano, Vesuviano e Siciliano. All’epoca erano in piena fase di sviluppo i primissimi jet quadrimotori civili e grazie agli “agganci” statunitensi del potente socio TWA, all’inizio del 1956 la LAI ricevette dalla Boeing le specifiche finali per il 707-320 e nel luglio del 1957 per il 707-420. I patti con il socio straniero prevedevano che se la LAI avesse acquistato gli Starliner, in seguito avrebbe avuto la precedenza nelle consegne di Boeing 707 originariamente opzionati da TWA e che avrebbero dovuto coprire le stesse rotte degli aerei Lockheed, ma ovviamente molto più velocemente. In questo modo la LAI avrebbe potuto essere la quinta compagnia al mondo ad offrire ai propri passeggeri un volo in jet sulla rotta del Nord Atlantico.
Parallelamente, Alitalia era più interessata ai Douglas DC-8 – diretti concorrenti dei 707 – e all’orizzonte sembrava profilarsi un’accesissima competizione commerciale tra le due principali linee aeree italiane. Ma nel corso del 1957 una complessa sequenza di eventi politici e commerciali, uniti ad una serie di tragici incidenti, rese possibile ciò che veniva reputato inverosimile, vale a dire una fusione tra LAI ed Alitalia, che portò alla nascita di Alitalia – Linee Aeree Italiane: denominazione che rimase in auge fino al 2008, anno del successivo cambio societario.
A seguito della fusione, la flotta Alitalia si ingrandì in maniera sostanziale, ricevendo “in dote” dalla LAI non solo gli ormai vetusti Douglas DC-3, ma anche i più moderni turboelica Vickers Viscount di costruzione britannica. Invece, che fine fecero gli Starliner, di cui uno aveva già compiuto i primi voli di prova negli Stati Uniti con la definitiva livrea LAI? È probabile che i dirigenti Alitalia, che avevano una posizione di forza all’interno della nuova società, ritennero che la coabitazione di due aeroplani molto differenti come gli Starliner e i DC-7C non sarebbe stata una mossa saggia; di conseguenza Alitalia rinunciò all’acquisto degli aerei della Lockheed, che pertanto vennero rilevati dalla stessa TWA. L’opzione 707 non venne scartata subito, tanto che ancora nel febbraio del 1958 Alitalia realizzò uno studio comparativo tra il jet della Boeing e il Douglas DC-8. Ma anche in questo caso alla fine prevalse la netta preferenza di Alitalia per i velivoli Douglas – oltre all’offerta di particolari condizioni economiche e all’assicurazione della fornitura dei primi aerei entro l’inizio delle Olimpiadi di Roma del ’60 ottenute dall’energico amministratore delegato di Alitalia, Bruno Velani – per cui il 16 luglio del 1959 venne siglato il contratto d’acquisto dei quadrigetto con la Douglas.
La fine del supersonico e il “colpo di mano” dei DC-9
Quando nel 1960, in concomitanza dei Giochi Olimpici di Roma, Alitalia inaugurò ufficialmente l’era dei jet, la scelta cadde sia sul Douglas DC-8/43 – e ciò la rese la prima compagnia europea a ricevere il nuovo jet – sia sul francese Caravelle. Ma il pensiero di tecnici, naviganti e dirigenti andava già ai favoleggiati apparecchi supersonici, in grado di attraversare l’Atlantico in poche ore. Alitalia aveva creato un apposito gruppo di studio, guidato da Renato Valant, per valutare il migliore progetto di velivolo supersonico commerciale. La proposta anglo-francese che avrebbe portato alla creazione del Concorde non venne ritenuta commercialmente interessante dalla commissione italiana, che invece appoggiò senza riserve l’ambiziosissima proposta americana, che prevedeva un aereo più capace, più veloce e con maggiore autonomia. Il 2 novembre 1963 Velani consegnò un assegno da 300.000 dollari come caparra per lo sviluppo dell’aereo e come opzione di acquisto per tre velivoli supersonici made in USA. Alitalia era la prima compagnia non statunitense a contribuire al progetto e perciò sarebbe stata premiata con il diritto di ricevere 2 dei primi 9 supersonici costruiti. L’entusiasmo era alle stelle e sulla scia di un eccessivo ottimismo, Alitalia nel dicembre del 1965 raddoppiò l’opzione originale, portandola a 6 velivoli in totale. Alla fine del 1966 la Boeing si aggiudicò la gara per lo sviluppo del supersonico statunitense, denominato 2707; inizialmente il velivolo era basato su una struttura con ali a geometria variabile e una produttività teorica paragonabile a quella di 4 Boeing 707. Lo sviluppo dell’aereo però si scontrò con una micidiale serie di problemi sia tecnici – per l’utilizzo di materiali particolari come il titanio e per le inedite questioni inerenti il volo supersonico – sia di costi. Per anni Alitalia continuò a proporre il Boeing 2707 attraverso i propri canali di comunicazione, dando per scontato che prima o poi questo aereo sarebbe entrato in servizio. Ma dopo una lunga sequenza di prove e tentativi, condita da un ingente quantitativo di denaro pubblico, nel 1971 il Senato USA mise la parola fine al progetto del Boeing 2707, rifiutando di elargire ulteriori finanziamenti. Alitalia recuperò i dollari versati come caparra, ma l’idea di avere un supersonico nella flotta rimase per sempre una chimera.
Nello stesso anno in cui Velani iniziò a sostenere finanziariamente lo sviluppo del supersonico, la direzione tecnica di Alitalia ebbe il compito di studiare il futuro modello di jet per il medio raggio, iniziando a considerare quattro progetti: il Boeing 727-100, il BAC 1-11 serie 200, il Trident 1C e il Douglas DC-9/10. Tuttavia, all’epoca nessuno di questi velivoli possedeva le caratteristiche richieste dalla compagnia, per cui si procedette ad un secondo studio che comprendeva Boeing 727-200 e 737, la versione 500 del BAC 1-11, la serie 1E del Vickers Trident e infine il Douglas DC-9/30. Come ormai voleva la tradizione, Alitalia poteva contare su un “canale preferenziale” con la Douglas, ma nel 1964-65 le lobby politiche, rappresentate allora soprattutto da rappresentanti dell’area socialista, iniziarono ad esercitare forti pressioni sulla compagnia, appoggiando senza riserve la proposta della BAC e potendo contare su una certa affinità di intenti tra il governo di centro-sinistra italiano (il cosiddetto “Moro II”) e quello laburista britannico. Il BAC 1-11 sembrava davvero destinato ad entrare nella flotta Alitalia, tanto che tutti i principali mezzi di informazione dell’epoca, inclusi quelli britannici, davano ormai l’accordo per scontato. Ma nessuno aveva considerato la refrattarietà della dirigenza Alitalia nei confronti di quelle che all’epoca erano viste come intollerabili imposizioni da parte del mondo politico. E così, proprio nello stesso periodo in cui una commissione governativa italiana si trovava in Gran Bretagna per discutere gli ultimi dettagli dell’accordo commerciale e politico, con un vero e proprio “colpo di mano” il 15 dicembre 1965 Alitalia con uno scarno comunicato stampa annunciava di avere stipulato un contratto con la Douglas per l’ordine di 28 velivoli DC-9/30 per una cifra superiore agli 85 miliardi di lire, corrispondenti oggi a circa 890 milioni di euro. Il tutto arricchito da un accordo di co-produzione tra la Douglas e le aziende del gruppo IRI, di cui Alitalia faceva parte, per la fornitura di parti che sarebbero state utilizzate per tutti i DC-9 prodotti e venduti nel mondo. Questa scelta compiuta da Alitalia ebbe moltissimi detrattori, ma probabilmente fu una delle ultime ad essere compiuta indipendentemente dagli orientamenti politici.
Dai 747-400 agli Airbus A321 Neo
Tra la metà degli anni ’80 e l’inizio del nuovo millennio la situazione di Alitalia e delle compagnie del gruppo divenne sempre più intricata e contraddittoria. Per fare qualche esempio riguardante gli aeroplani, nel 1983 avrebbero dovuto essere consegnati gli ultimi due Boeing 727 della flotta, ma Alitalia decise di non ritirarli e l’ordine originale fu convertito in MD80, anche se i 727 erano già stati dipinti nei colori della compagnia e pertanto vicinissimi alla consegna. Nel giugno del 1992 Alitalia noleggiò da Aer Lingus per 11,7 miliardi di lire all’anno (circa 20 milioni di euro attuali) due Boeing 737 per adibirli ad impieghi cargo, ma dopo 12 mesi la produttività dell’impresa si dimostrò largamente al di sotto delle aspettative e i due piccoli velivoli cargo restituiti al mittente. Poi nel 1995 scoppiò la grana 767-300: Alitalia affittò questi aerei in wet lease dall’australiana Ansett che li condusse nel mondo con insegne Alitalia ed equipaggi stranieri. La conseguente feroce lotta sindacale condotta dal personale AZ ebbe fine solo 26 mesi dopo, quando il contratto con la Ansett si concluse e i sei Boeing 767 utilizzati fino ad allora iniziarono a volare esclusivamente con equipaggi italiani, sfoggiando la livrea Alitalia Team. Nel frattempo, Alitalia aveva ordinato alla compagnia di leasing GECAS altri due B767-300 e la Boeing li aveva già completati e dipinti nella livrea tricolore. Le marche di questi velivoli erano EI-CMD ed EI-CME, ma per qualche ragione mai ufficialmente dichiarata, la compagnia preferì non ritirare gli aerei già pronti alla consegna, i quali vennero quindi destinati alla Vietnam Airlines. Sempre nello stesso periodo, Alitalia si era impegnata con un ordine di ben 15 Fokker F70, che avrebbero dovuto entrare in servizio per la consociata Avianova. Gli aerei iniziarono ad essere consegnati nel dicembre 1995 e per questi velivoli erano già stati scelti 15 nomi di battesimo di personalità storiche dell’antica Roma, ma il 15 marzo del ’96 Fokker andò in bancarotta, la produzione si interruppe e il Gruppo Alitalia fu costretto a rivedere totalmente i propri piani, restituendo i 5 velivoli che erano stati consegnati fino a quel giorno: tre alla Fokker in liquidazione, uno alla Malév e l’ultimo alla KLM.
Ma la storia di aerei ordinati e mai entrati in flotta continuò, raggiungendo il suo picco nel 2000. Il 16 marzo di quell’anno, la Boeing annunciò ufficialmente l’ordine da parte di Alitalia di ben cinque B747-400, il primo dei quali avrebbe dovuto essere consegnato orientativamente un anno dopo. L’aereo – che all’epoca rappresentava il top della gamma Boeing – avrebbe raggiunto e progressivamente sostituito gli altri B747-200 già presenti nella flotta Alitalia. Questa scelta non era casuale: a quei tempi KLM ed Alitalia avevano stretto una potente alleanza e la compagnia olandese utilizzava già 20 Boeing 747-400; uniformare le due flotte era pertanto una scelta logica. All’epoca cominciarono a circolare immagini e modelli Boeing non solo di 747-400, ma anche di 737 con la livrea Alitalia, segno che la ditta costruttrice era ottimista sugli sviluppi futuri. E in Irlanda erano già state registrate le marche EI-CVG, CVH, CVI, CVJ e CVK riservate ai primi cinque 747-400 Alitalia. Peccato però che già il 1° maggio del 2000 KLM annunciò la fine della joint venture con Alitalia, pagando una sostanziosa penale pur di sbarazzarsi del socio italiano, divenuto scomodo. A quel punto, essendo variate le prospettive, Alitalia decise di rinunciare ai nuovi 747, modificando il proprio ordine originale in 6 Boeing 777-200ER, più un’opzione per altrettanti 777-300ER. A subentrare nell’ordine dei cinque 747-400 fu quindi la Virgin Atlantic, ben lieta di ottenere degli aerei di punta già in avanzata fase di realizzazione. Come curiosità, gli aerei forniti alla Virgin compirono il volo di trasferimento dalla sede Boeing di Seattle alla base di Auckland in Nuova Zelanda, dove sarebbero stati riconfigurati e ridipinti, con le winglets ancora pitturate con il logo AZ. Ad ogni modo, il primo B777, l’I-DISA “Taormina” fu consegnato ad Alitalia il 23 agosto 2002, mentre l’ordine per la variante 300 non fu confermato e l’unico aereo di questo tipo venne affittato solo molti anni dopo, entrando in servizio il 1° settembre 2017 con marche EI-WLA e nome di battesimo Roma.
L’ultimo aereo che avrebbe potuto sfoggiare la livrea Alitalia, ma che non è mai entrato in linea, è l’Airbus A321 Neo. Alla fine dello scorso anno, l’allora commissario Alitalia Luigi Gubitosi nella sua lettera di commiato ai dipendenti Alitalia diede l’annuncio dell’interesse della compagnia verso quei velivoli. Nel testo, Gubitosi aveva descritto i A321 Neo come gli aerei «che segneranno l’inizio del processo di modernizzazione della flotta». In effetti gli A321 già in servizio in Alitalia avevano (e hanno) quasi tutti più di vent’anni sulle spalle, e svariati di questi velivoli avrebbero dovuto essere dismessi e restituiti ai lessor entro la fine del 2019. Per cui, quando con il fallimento della compagnia scandinava Primera Air si resero disponibili tre modelli Neo quasi nuovi di zecca, Alitalia si dimostrò subito interessata al loro acquisto, tanto che vennero subito reimmatricolati EI-GHV, EI-ITA ed EI-LIA; da notare negli ultimi due velivoli la curiosa combinazione del suffisso delle marche successivo alla sigla di registrazione irlandese che compone il nome “Italia”. La verniciatura dei due nuovi velivoli nella livrea Alitalia era già stata prenotata presso la IAC – International Aerospace Coatings, ma con l’abbandono del commissario Gubitosi venne meno la persona che più di ogni altra desiderava approfittare dell’occasione di una serie di velivoli praticamente nuovi da inserire in servizio nel medio-lungo raggio. Di conseguenza – anche nell’ottica della delicata fase di trattative in cui si trova tuttora la compagnia – l’intero progetto degli A321 Neo in Alitalia fu abbandonato.
Ora, quale sarà il futuro della flotta AZ? Potranno senz’altro presentarsi altre occasioni e forse addirittura delle sorprese, sebbene i pessimisti vedano Alitalia più interessata a sfoltire la propria dotazione di aerei, considerate soprattutto l’attuale situazione societaria e la necessità di rendere l’azienda più “appetibile” ai futuri – e ancora ipotetici – finanziatori.
Diego Meozzi
Pubblicato originariamente sulla rivista JP4 (gennaio 2020)
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